domenica 11 novembre 2018

Giuseppe Liotta, pediatra deceduto mentre andava a visitare dei pazienti. Le riflessioni di Sofia Muscato

Tratto dalla pagina facebook di Sofia Muscato:  https://www.facebook.com/sofia.muscato.9/posts/10217003684715433
Si rende noto che sono pronto a rimuovere quanto riportato se richiesto dagli aventi diritto.


C'è stato un giorno che mi trovai davanti a un bivio.
L'idea di iscrivermi in medicina, mi aveva sfiorata.
Il motivo per cui non l'ho fatto è stato uno soltanto: perché un medico, la morte, la vede prima.
La conosce subito e prende subito consapevolezza dell'impossibilità di essere un super eroe.
Un medico, molto spesso, deve masticare il boccone amaro quando agli altri non è ancora nemmeno arrivato il piatto.
Guarda i segni della fine e cerca di renderne sopportabili i contorni con ostinazione e, soprattutto, con coraggio.
E io, questo coraggio non l'avevo.
Io non sono un medico ma so cosa fanno i medici perché ce li ho in casa.
So che spesso sono custodi di notizie difficili che devono imparare a dare con delicatezza e garbo.
Per questo, imparano a soffrire in silenzio; a piangere di nascosto; a chiudersi dentro un involucro un po' più freddo di quello degli altri che, stranamente, serve a proteggerli, riscaldandoli.
Un medico, nell'arco della sua vita, impara a conoscere, meglio di chiunque altro, il dolore del corpo.
È colui che vede i tratti più marcati della sofferenza, quei tratti che cerca di sfumare con flebo che non sono solo piene di medicinale ma anche di speranza e fiducia.
Tra i corridoi di un ospedale, i medici si incrociano, si scambiano sorrisi, si raccontano storie, si danno pacche sulle spalle, si consolano per le vite che hanno dovuto lasciar andare, pregano per quelle che vorrebbero salvare.
Un caffè e stirano le pieghe di una giornataccia che è andata; uno sguardo amico e trovano la forza di restare in trincea anche quando cuore, testa ed emozioni, dicono di scappare.
Un vero medico non è mai un mercenario. Un vero medico ha a cura il paziente nella sua totalità e, se adopera in coscienza, non rimane "altro" dalla persona che segue ma, in qualche modo, se lo porta a casa, dentro la sua vita, dentro ore passate a cercare una diagnosi, tra pensieri, soluzioni, alternative e lacrime.
Ci vuole stoffa, grande spirito di sacrificio, notti insonni e capacità di assumersi dei rischi.
Ci vuole un cielo al quale appendere sconfitte e traguardi.
Ci vogliono occhi capaci di vedere bene anche quando sono quasi chiusi dal sonno e riflessi sempre pronti anche tra le mura di Guardie Mediche di montagna.
Ma, soprattutto, per fare il medico, ci vuole ardore, passione e un fuoco d'amore, dentro.
Credo che il senso del dovere, unito a questo grande fuoco, abbia portato Giuseppe Liotta a sfidare l'acqua che, in questi giorni, ha trascinato, con sé, detriti, vite umane e sogni.
Credo che questo giovane pediatra, ancora disperso, fosse un medico vero: di quelli che la mattina, si svegliano non solo per portare, onestamente, il pane a casa, ma soprattutto per alleviare, lenire e mitigare il dolore altrui.
I medici come lui sono gli eroi della normalità: quelli che brillano per i giorni cuciti sulla giacca, le solitudini incollate al cappotto e lo stetoscopio pieno di respiri e io credo che questa Italia martoriata da sciacalli, ad oggi, trovi la sua luce più grande, solo nelle azioni mute dei semplici.
Semplici come Giuseppe.
Semplici come il suo bel sorriso, pieno di famiglia, sole, dedizione, casa e vita.
Semplici come tutto l'amore di cui è stato capace in nome del Bene.

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