mercoledì 29 giugno 2011

Pietro liberato dal carcere

At 12, 1-11
 
In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Àzzimi. Lo fece catturare e lo gettò in carcere, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua.
Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere.
Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.
Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.
Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva».

San Pietro e Paolo - Omelia di Benedetto XVI

Cappella papale nella solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, 29.06.2011
Alle ore 9.30 di oggi, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e nella ricorrenza del 60° anniversario della Sua Ordinazione presbiterale, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica Vaticana la Concelebrazione Eucaristica con 41 Arcivescovi Metropoliti ai quali, nel corso del Sacro Rito, impone i Palli presi dalla Confessione di San Pietro.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli composta da: Sua Eminenza Emmanuel (Adamakis), Metropolita di Francia; S.E. Athenagoras (Yves Peckstadt), Vescovo di Sinope, Ausiliare del Metropolita del Belgio; Rev.do Archimandrita Maxime Pothos, Vicario Generale della Metropolia della Svizzera.
Dopo la lettura del Vangelo e prima del Rito di benedizione e imposizione dei Palli agli Arcivescovi Metropoliti, il Papa tiene l’omelia.
Ne riportiamo di seguito il testo:


OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15).

A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati.

Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più.

Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati.

Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata.

E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.

Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale.

Che cosa è veramente l’amicizia?

Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui?

L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso.

L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego.

No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15).


Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico! La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite.

Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli – agli amici – è quello di mettersi in cammino, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo. Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione.

Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti?

Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici.

In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta. Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre.

L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia.

Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno.
Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento. Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagnia della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e la preghiera. Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un “giogo dolce”, ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo.

Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato.

E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 15 giugno 2011

Isaia 40, 28-31 - Il riposo di chi confida in Dio

"Dio eterno è il Signore,
creatore di tutta la terra.


Egli non si affatica e non si stanca,


la sua intelligenza è inscrutabile.


Egli dà forza allo stanco

e moltiplica il vigore dello spossato.


Anche i giovani faticano e si stancano,
gli adulti inciampano e  cadono;

 
ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,
mettono ali come aquile,


corrono senza affannarsi,

  
camminano senza stancarsi".
Isaia 40, 28-31

lunedì 13 giugno 2011

Oratorio di S. Antonio da Padova - La Verna

In onore a tutti gli Antonio che conosco, e che festeggiano, l'Antonio portoghese, e non l'abate, inserisco una foto, che ho scattato durante il mio recente periodo di riposo alla Verna e che ho trovato per caso proprio oggi. Si tratta di una piccola cappella chiamata Oratorio di S. Antonio

Oratorio di S. Antonio alla Verna

Sant Antonio dimorò alla Verna, vicino al luogo della seconda cella di Francesco l'anno prima della sua morte avvenuta a Padova il 13 giugno 1231.

Chiuse, cieche e sorde - da "Vivi con passione!" di Valerio Albisetti

Riporto un capitoletto del libro. Spero che Valerio non si arrabbi. Una riflessione che mi sembra interessantissima. Il suo punto di vista sulla questione di fare quello che siamo chiamati a fare. 
Un tema declinabile in maniere diversissime. Presente in tante opere cristiane. Mi viene in mente la famosa frase che Elrond dice ad Aragorn ne Il signore degli anelli - Il ritorno del Re: "Metti da parte il ramingo... diventa ciò che sei nato per essere...".
La frase di Santa Caterina da Siena "Se sarete quello che dovete essere voi incendierete il mondo!"  e ancora  Martin Buber che dice: " Se non ora quando? Se non qui, dove? Se non io, chi?"
Mi rendo conto che se in molte occasioni avessi tenuto bene presente queste parole, queste frasi, sarei stato molto più incisivo, coraggioso, tempestivo. Meno vigliacco in fondo.
Forse avrei amato di più me stesso e così facendo avrei comunicato vita, coraggio, forza  anche alle persone che mi stanno vicino. Forse le avrei disorientate inizialmente, deluse. Alcune le avrei fatte arrabbiare.  Però, e parlo delle occasioni in cui avevo ragione, avrei comunque dato loro un'occasione di sentire un'opinione diversa. Uno stimolo diverso. Fuori dal coro.
Questo l'ho provato quelle volte in cui la parte più profonda di me non ha potuto tacere di fronte ad una palese verità oltraggiata da un'altrettanto palese menzogna. Lì dove queste due forze, scontrandosi, hanno obbligato la parte più profonda di me, a venire fuori, ad emergere, scegliendo la verità, ho provato l'esperienza di chi segue la propria vocazione. Di chi si lancia nel vuoto. Di chi sceglie di aderire ad una verità più profonda. Che sente dentro se stesso e che tante volte, parlo per me, sacrifica agli dei del voler vivere tranquillo, adeguandosi all'opinione comune, al creare meno problemi possibili. 
Qualche volta, forse proprio quando ero forse più pressato dagli eventi ho vissuto l'esperienza di scegliere la verità. Costi quel che costi. E "chissene", come  dicono a Roma, di quello che succede.
Per questo sono entrato in risonanza con queste parole di Valerio Albisetti. Per questo le ripropongo sul blog. Buona meditazione.


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"Chiuse, cieche e sorde.
Questo è il ritratto che mi appare delle persone che vivono senza passione.
Perché la vocazione, la passione,  la chiamata sono in tutti noi!
   Chi pensa di non sentirle è appunto perché non le sente!
   Ma ci sono.
   E spingono dentro, interiormente.
   Per mesi, per anni.
   Si zittiscono per causa nostra, per il nostro continuo reprimerle, nasconderle, rimuoverle.
    In nome di chi? di che?
    Spesso per le buone forme, per il quieto vivere,  per conformismo,  per seguire ciò che hanno fatto i nostri padri, ma tutto ciò è... mortale.
    Sotto sta sempre la paura.
    La vigliaccheria.
    Chiudersi alla propria vocazione è il peggior peccato.
   E' come essere già morti.
   Significa chiudersi alla vita.
   Quella vera.
   Quella veramente personale.
   Che porta solo il nostro nome.
   Non quella dettata dalle mode e dalla società in cui si vive, ma dettata dal proprio cuore.
   Unico e irripetibile.
   Tra l'altro, chi vive senza passione,  non cercando la propria vocazione è di poco aiuto anche agli altri, a chi gli sta vicino.
   Come si fa ad amare se non si vive con passione, non seguendo la propria vocazione?
   Crederemo di amare, ma ci illuderemo, e comunque il nostro amore non avrà forza, non possederà energia.
   Così per il percorso spirituale, perun cammino di crescita psicospirituale,  se non si vive la propria chiamata si è fasulli, persi, senza centro, privi di orientamento.
   D'altra parte la missione per cui siamo venuti sulla terra nessun altro può realizzarla...
   Riguardo alla propria vocazione siamo insostituibili...
   Eppure sono molte le persone che non seguono la propria chiamata. Perché?
   Perché hanno paura di soffrire.
   Aver paura di soffrire è come morire.
   Peggio.
   E' non vivere.
   Solo se si segue la propria vocazione non si prova più paura.
   Se si sapesse  questo forse molte vite cambierebbero.
   Per esempio, chissà quanti vivrebbero in prima persona piutttosto che vivere da comprimari o addirittura per interposta persona: un celibe che piuttosto di sposarsi e far figli si accontenta di fare lo zio o l'educatore, una moglie che spinge il marito a fare la carriera che avrebbe voluto fare lei...
   Oppure quelli che hanno abbandonato una professione a cui erano chiamati, o hanno lasciato una persona a cui erano destinati per vocazione...
   Infine  coloro che non vogliono seguire la propria chiamata pur riconoscendola..."

Estratto da: "Vivi con Passione!" di Valerio Albisetti
Capitolo IV

Copertina del libro

giovedì 9 giugno 2011

Giovanni Paolo II - Parole dopo il concerto in occasione del 50° anniversario dell'ordinazione sacerdotale - 31 ottobre 1996

A cinquant'anni dal giorno benedetto un cui lo Spirito Santo, mediante l'imposizione delle mani dell'arcivescovo di Cracovia Adam Stefan Sapieha, mi ha consacrato sacerdote di Cristo, rivolgo a Dio il mio grazie commosso per quanto egli ha voluto compiere in me. Nello stesso tempo, estendo la mia gratitudine alle tante persone che ho incontrato sulla mia strada e che in diversa misura,  mi hanno aiutato nel cammino percorso in tutti questi anni.

Continui l'eterno Padre, per intercessione di Maria, regina di tutti i santi, a guidare i miei passi perché possa essere ministro fedele dei doni divini e servo generoso del gregge che Egli mi ha affidato.

Giovanni Paolo II

lunedì 6 giugno 2011

Giovanni Paolo II - New Orleans - Discorso ai giovani - 12 settembre 1987

E' con la verità di Gesù, cari giovani, che dovete affrontare i grandi problemi della vostra vita, come pure i problemi pratici. Il mondo cercherà di ingannarvi su molte cose importanti:  sulla vostra fede,  sul piacere e sulle cose materiali, sui pericoli della droga.
A un certo punto le  false voci del mondo cercheranno di sfruttare la vostra umana debolezza dicendovi che la vita per voi non ha alcun significato. Il furto più grande nella vostra vita avrà luogo se riusciranno a strapparvi la speranza. Essi cercheranno di farlo, ma non vi riusciranno se vi tenete uniti strettamente a Gesù e alla sua verità.

La verità di Gesù è in grado di  rafforzare tutte le vostre energie. Unificherà la vostra vita e consoliderà il vostro senso di missione. Potrete sempre essere vulnerabili agli attacchi che vengono dalle pressioni del mondo, dalle forze del male,  dal potere del diavolo. " Ma sarete invincibili nella speranza: in Cristo Gesù nostra speranza" ( 1 Tm 1,1).

Cari giovani: la parola di Gesù, la sua verità e le sue promesse di realizzazione e di vita sono la risposta della chiesa alla cultura della morte, agli assalti del dubbio e al cancro della disperazione.

Il Papa il 15 settembre 1997 cammina tra i giovani al Universal Amphitheatre in Los Angeles, Calif. 
Giovanni Paolo II visitò questa cattedrale e celebrò una messa all'aperto per più di 200.000 giovani davanti al lago.

domenica 5 giugno 2011

Ti ricordiamo così, Karol - A novantanni dalla nascita di Giovanni Paolo II


Inserisco il link a you tube, di un interessante speciale prodotto nel 2008, se non sbaglio, in occasione dei novanta anni dalla nascita di Giovanni Paolo II.
E' stata un'occasione per vedere piccoli inediti e per ricordare il nostro amato Karol.

Ti ricordiamo così, Karol - A novant'anni dalla nascita di Giovanni Paolo II

Il documento è prodotto da Raidue e Rai Vaticano. Uno dei due autori è  il  nostro caro Giuseppe De Carli, morto il 13 luglio 2010, e che salutiamo con tanto affetto e stima. Il coautore è Ivano Balduini.  Verso le loro figure si indirizza la mia gratitudine per il lavoro di livello e per l'esempio di professionalità e di cura.


Una delle tantissime foto reperibili sul web

Diventa ciò che sei - Valerio Albisetti - Decalogo


Estratto da
Valerio Albisetti,
Diventa ciò che sei,
Un cammino di spiritualità cristiana
Copertina del libro fotografata sullo sfondo del Monte Penna, località la Verna
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PRIMA DI CONTINUARE

Le mie parole probabilmente ti stanno inquietando perché senti che hai perso tanto tempo, che gai sbagliato lavoro, che hai scelto un prtner sbagliato, che hai indirizzato male la tua vita, che ti sei perso, che ti sei impigrito, impaurito, immobilizzato... Forse vorresti un lavoro più gratificante, forse vorresti più visibilità, forse vorresti più soldi, più prestigio sociale.
Bene.
Tutto ciò indica che hai bisogno di cambiamento.
Di trasformarti.
Non preoccuparti.
Non credere di essere uscito dal tuo viaggio della vita.
Perché ti senti bloccato, fermo, inutile, insoddisfatto...
Va tutto bene.
Il viaggio che intendo io prevede fermate, sofferenze, dolori tradimenti...
Certo, quando ti accorgi che stai affrontando solo ostacoli, che tutto va male e in modo continuo e costante, allora sarà meglio fermarsi un attimo e rivedere il tuo modo di pensare.
Quando ti accorgi che sono anni che attiri solo insuccessi e persone sbagliate..., forse vuol dire che devi cambiare mentalità.
Allora è necessario farsi un decalogo mentale, che io ho tratto e traggo dai miei dolori, dalle mie sofferenze, dai miei insuccessi, dai miei errori, dalla mia esperienza di vita e che ti dono, caro lettore/lettrice, con piacere, sperando che ti sia utile, come lo è per me:

      1. Credo di essere unico e irripetibile, essere di origine divina, anche se tutto il mondo continua a dirmi che valgo poco o nulla.
      1. Deve essere semplice e non uscire dal percorso verso il mio scopo, costi quel che costi. Anche se sembra impossibile, perché, per esempio, mi sono sposato, ho un figlio, non più l'età, non ho gli studi, ecc …

      2. Devo ammettere onestamente ciò che funziona nella mia vita e ciò che non funziona..., devo entrare dentro di me e trasformarmi.

      3. Devo cominciare a fare, seppur piccoli, passi verso lo scopo per cui mi sento venuto sulla terra.
      1. Non devo farmi condizionare dalle persone negative che mi stanno intorno, non devo farmi influenzare da sensi di colpa o di inferiorità che qualcuno vorrebbe insinuare in me.

      2. Devo guardarmi dagli ipocriti e da persone fasulle, non vere, non autentiche, mascherate da persone per bene.

      3. Devo guardarmi da quelli che si mettono sempre dalla parte della ragione. Sotto sotto, vogliono mantenere il controllo su di me.

      4. Devo stare con persone che mi fanno crescere.

      5. Devo ricordarmi che ho sempre la possibilità di scelta.
         
      6. Devo ricondarmi di essere figlio adottivo di Dio.

La copertina del libro

La nostra paura - Nelson Mandela

"La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati
la nostra paura più profonda è di essere potenti oltre misura.
È la nostra luce, non il nostro buio che ci fa paura.
 

Noi ci chiediamo: "Chi sono io per essere così brillante, così grandioso?
Pieno di talenti, favoloso?"
In realtà chi sei tu per non esserlo?
Tu sei un figlio di Dio.

Se tu voli basso, non puoi servire bene il mondo.
Non si illumina nulla in questo mondo se tu ti ritiri, appassisci.

Gli altri intorno a te non si sentiranno sicuri.

Noi siamo nati per testimoniare la gloria di Dio dentro di noi.
Non soltanto in qualcuno, ma in ognuno di noi.
Nel momento in cui noi permettiamo alla nostra luce di splendere.
Noi inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare lo stesso.
Nel momento in cui noi siamo liberi dalla nostra paura.
La nostra presenza stessa, automaticamente, libera gli altri".

 Nelson Mandela

Nelson Mandela

L'uomo - Poesia di Karol Wojtyla

Vi sono trame aggrovigliate,
se provi a districarle senti che insieme ad esse
dovresti strappare te stesso.

Ti basti allora guardare,
cercare di capire
 non addentrarti pervicace
che non abbia ad inghiottirti l'abisso.
E' soltanto l'abisso dell'essere.

L'essere non assorbe,
ma cresce lentamente e si tramuta in sussurro.
Questo è il pensiero impregnato di esistenza.
Tu, l'universo, Dio.
Inversamente senti come tutto le gambe ti afferra
l'essere si riduce ad un punto
e il pensiero come steppa inaridisce.

Semplicemente lavora, abbi fiducia ed entra in te
solo quel tanto che ti renda cosciente del tuo orgoglio
e questa è già umiltà.
E sorveglia piuttosto la volontà.
Dei sentimenti un prepotente sfogo
viene soltanto di rado
e a Dio non giunge.

Karol Wojtyla

IL CAMMINO DELL'UOMO

IL CAMMINO DELL'UOMO
Marcia francescana 25 luglio - 4 agosto 2003