sabato 25 marzo 2023
W di Walter - Rossana Podestà racconta Walter Bonatti
venerdì 24 marzo 2023
Carlo Mauri: l'amico e compagno di cordata di Walter Bonatti
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giovedì 23 marzo 2023
Confessori perdonanti che sono a loro volta perdonati - Papa Francesco al corso sul Foro interno
Discorso di Papa Francesco ai partecipanti al XXXIII corso sul Foro interno che si svolge a Roma dal 20 al 24 marzo 2023 per iniziativa della Penitenzieria apostolica. Ricevendoli in udienza, stamane, giovedì 23, nell’Aula Paolo VI, il Pontefice ha pronunciato il seguente discorso.
Cari fratelli, buongiorno, benvenuti!
Grazie che siete venuti in occasione dell’annuale Corso sul foro interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, giunto alla xxxiii edizione. Ringrazio il Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, e lo ringrazio per le sue cortesi parole e per quello che fa; lo stesso dico al Reggente Mons. Nykiel, che lavora tanto, ai Prelati, agli Officiali e al Personale della Penitenzieria — grazie a tutti! —, ai Collegi dei penitenzieri delle Basiliche Papali e a tutti voi partecipanti al corso.
Da ormai oltre tre decadi la Penitenzieria Apostolica offre questo importante e valido momento di formazione, per contribuire alla preparazione di buoni confessori, pienamente consapevoli dell’importanza del ministero a servizio dei penitenti. Rinnovo alla Penitenzieria la mia gratitudine e il mio incoraggiamento a proseguire in questo impegno formativo, che fa tanto bene alla Chiesa perché aiuta a far circolare nelle sue vene la linfa della misericordia. È bene sottolinearlo. Il Cardinale lo ha ripetuto tanto: la linfa della misericordia. Se qualcuno non se la sente di essere un datore di misericordia che si riceve da Gesù, non vada al confessionale. In una delle Basiliche papali, per esempio, ho detto al Cardinale: “C’è uno che sente e rimprovera, rimprovera e poi ti dà una penitenza che non si può fare...”. Per favore, questo non va: no. Misericordia: tu stai lì per perdonare e per donare una parola affinché la persona possa andare avanti rinnovata dal perdono. Tu stai lì per perdonare: questo mettitelo nel cuore.
L’Esortazione apostolica Evangelii gaudium dice che la Chiesa in uscita «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (n. 24). Esiste dunque un legame inscindibile tra la vocazione missionaria della Chiesa e l’offerta della misericordia a tutti gli uomini. Vivendo di misericordia e offrendola a tutti, la Chiesa realizza sé stessa e compie la propria azione apostolica e missionaria. Potremmo quasi affermare che la misericordia è inclusa nelle “note” caratteristiche della Chiesa, in particolare fa risplendere la santità e l’apostolicità.
Da sempre la Chiesa, con stili differenti nelle varie epoche, ha espresso questa sua “identità di misericordia”, rivolta sia al corpo sia all’anima, desiderando, con il suo Signore, la salvezza integrale della persona. E l’opera della misericordia divina viene così a coincidere con la stessa azione missionaria della Chiesa, con l’evangelizzazione, perché in essa traspare il volto di Dio così come Gesù ce lo ha mostrato.
Per questa ragione non è possibile, specialmente in questo tempo di Quaresima, lasciare che venga meno l’attenzione all’esercizio della carità pastorale, che si esprime in modo concreto ed eminente proprio nella piena disponibilità dei sacerdoti, senza alcuna riserva, all’esercizio del ministero della riconciliazione.
La disponibilità del confessore si manifesta in alcuni atteggiamenti evangelici. Anzitutto nell’accogliere tutti senza pregiudizi, perché solo Dio sa che cosa può operare la grazia nei cuori, in qualunque momento; poi nell’ascoltare i fratelli con l’orecchio del cuore, ferito come il cuore di Cristo; nell’assolvere i penitenti, dispensando con generosità il perdono di Dio; nell’accompagnare il percorso penitenziale, senza forzature, mantenendo il passo dei fedeli, con pazienza e preghiera costanti.
Pensiamo a Gesù, che davanti alla donna adultera sceglie di rimanere in silenzio, per salvarla dalla condanna a morte (cfr. Gv 8, 6); così anche il sacerdote nel confessionale ami il silenzio, sia magnanimo di cuore, sapendo che ogni penitente lo richiama alla sua stessa condizione personale: essere peccatore e ministro di misericordia. Questa è la vostra verità; se qualcuno non si sente peccatore, per favore, che non vada al confessionale: peccatore e ministro di misericordia stanno insieme. Questa consapevolezza farà sì che i confessionali non restino abbandonati e che i sacerdoti non manchino di disponibilità. La missione evangelizzatrice della Chiesa passa in buona parte dalla riscoperta del dono della Confessione, anche in vista dell’ormai prossimo Giubileo del 2025.
Penso ai piani pastorali delle Chiese particolari, nei quali non dovrebbe mai mancare un giusto spazio per il servizio della Riconciliazione sacramentale. In particolare, penso al penitenziere in ogni cattedrale, ai penitenzieri dei santuari; penso soprattutto alla presenza regolare di un confessore, con ampio orario, in ogni zona pastorale, così come nelle chiese servite da comunità di religiosi, che ci sia sempre il penitenziere di turno. Sempre, mai confessionali vuoti! “Ma — potresti dire — la gente non viene!”: leggi qualcosa, prega; ma aspetta, arriverà.
Se la misericordia è la missione della Chiesa, ed è la missione della Chiesa, dobbiamo facilitare il più possibile l’accesso dei fedeli a questo “incontro d’amore”, curandolo fin dalla prima Confessione dei bambini ed estendendo tale attenzione ai luoghi di cura e di sofferenza. Quando non si può più fare molto per risanare il corpo, sempre molto si può e si deve fare per la salute dell’anima! In tal senso, la Confessione individuale rappresenta la strada privilegiata da percorrere, perché favorisce l’incontro personale con la Divina Misericordia, che ogni cuore pentito attende. Ogni cuore pentito attende la misericordia. Nella Confessione individuale, Dio vuole accarezzare personalmente, con la sua misericordia, ogni singolo peccatore: il Pastore, solo Lui, conosce e ama le pecore ad una ad una, specialmente le più deboli e ferite. E le celebrazioni comunitarie siano valorizzate in alcune occasioni, senza rinunciare alle Confessioni individuali come forma ordinaria della celebrazione del sacramento.
Nel mondo, lo vediamo purtroppo ogni giorno, non mancano i focolai di odio e di vendetta. Noi confessori dobbiamo moltiplicare allora i “focolai di misericordia”. Non dimentichiamo che siamo in una lotta soprannaturale, una lotta che appare particolarmente virulenta nel nostro tempo, anche se conosciamo già l’esito finale della vittoria di Cristo sulle potenze del male. La lotta, però, c’è ancora e la vittoria si attua realmente ogni volta che un penitente viene assolto. Nulla allontana e sconfigge di più il male della divina misericordia. E su questo io vorrei dirvi una cosa: Gesù ci ha insegnato che mai si dialoga con il diavolo, mai! Alla tentazione nel deserto Lui ha risposto con la Parola di Dio, ma non è entrato in dialogo. Nel confessionale state attenti: mai dialogare con il “male”, mai; si offre ciò che è giusto per il perdono e si apre qualche porta per aiutare ad andare avanti, ma mai fare lo psichiatra o lo psicanalista; per favore, non si entri in queste cose! Se qualcuno di voi ha questa vocazione, la eserciti altrove, ma non nel tribunale della penitenza. Questo è un dialogo che non è conveniente fare nel momento della misericordia. Lì tu devi soltanto pensare a perdonare e a come “arrangiarti” per far entrare nel perdono: “Tu sei pentito?” — “No” — “Ma non ti pesa questo?” — “No” — “Ma almeno tu avresti voglia di essere pentito?” — “Magari”. C’è una porta, sempre va cercata la porta per entrare con il perdono. E quando non si può entrare per la porta, si entra per la finestra: però sempre bisogna cercare di entrare con il perdono. Con un perdono magnanimo; “che sia l’ultima volta, la prossima non ti perdono”: no, questo non va. Oggi tocca a me, alle tre viene il confessore da me! E un’altra cosa: pensare che Dio perdona in abbondanza. Ho detto questa cosa l’anno scorso, ma voglio ripeterla: c’è stato uno spettacolo di alcuni anni fa sul figliol prodigo, ambientato nella cultura attuale, dove il giovane racconta le sue avventure e come si è allontano dalla casa. E alla fine parla con un amico, al quale dice che sente nostalgia del papà e vuole tornare a casa. E l’amico gli consiglia di scrivere al papà, domandandogli se vuole riceverlo di nuovo e chiedendo, in caso affermativo, di mettere un fazzoletto bianco a una finestra della casa: sarà il segnale che sarà ricevuto. Lo spettacolo continua e, quando il giovane si avvicina alla casa, la vede piena di fazzoletti bianchi. Il messaggio è questo: l’abbondanza. Dio non dice: “Soltanto questo...”; dice: “Tutto!”. È ingenuo Dio? Non so se è ingenuo, ma è abbondante: perdona sempre di più, sempre! Ho conosciuto bravi confessori e sempre il bravo confessore sa arrivare lì.
Cari fratelli, so che domani, al termine del Corso, avrete una celebrazione penitenziale. Questo è buono e significativo: accogliere e celebrare in prima persona il dono che siamo chiamati a portare ai fratelli e alle sorelle; sperimentare la tenerezza dell’amore misericordioso di Dio. Lui non si stanca mai di dimostrarci il suo cuore misericordioso. Lui non si stanca mai di perdonare. Siamo noi a stancarci di chiedere perdono, ma Lui non si stanca mai.
Vi accompagno con la preghiera e ringrazio la Penitenzieria per il lavoro che indefessamente svolge a favore del Sacramento del Perdono. E vi invito a riscoprire, approfondire teologicamente e diffondere pastoralmente — anche in vista del Giubileo — quel naturale ampliamento della misericordia che sono le indulgenze, secondo la volontà del Padre celeste di averci sempre e solo con sé, sia in questa vita sia nella vita eterna.
Grazie per il vostro quotidiano impegno e per i fiumi di misericordia che, come umili canali, riversate e riverserete nel mondo, per spegnere gli incendi del male e accendere il fuoco dello Spirito Santo. Vi benedico tutti di cuore. E vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie!
domenica 19 marzo 2023
C'è bisogno di buona politica per avvicinare la vita della gente - Incontro di Papa Francesco con il Progetto Policoro
L'articolo è stato tratto dall'Osservatore Romano del 18/03/2023. Si resta a disposizione per la rimozione immediata dell'articolo qualora richiesto dagli aventi diritto. I neretti sono stati aggiunti per facilitare il reperimento delle frasi ritenute più significative.
C’è bisogno di “buona politica” per avvicinare la vita della gente. È quanto ha sottolineato Papa Francesco nel discorso ai giovani partecipanti al Progetto Policoro promosso dalla Conferenza episcopale italiana. Il Pontefice li ha ricevuti in udienza stamane, sabato 18 marzo, nella Sala Clementina.
Caro Monsignor Baturi,
cari giovani, benvenuti!
Grazie per i saluti che mi avete rivolto. Questo incontro mi dà l’occasione di incoraggiare il percorso di formazione sociopolitica che dà continuità al “Progetto Policoro” della Chiesa italiana. Mi piace sottolineare che l’esigenza di questo percorso è nata dal basso, dal vostro bisogno di formarvi ad un servizio nella società e nella politica; e anche per potere, a vostra volta, collaborare alla formazione di altri giovani.
Quest’anno avete come tema la pace. È un tema che non può mancare nella formazione sociopolitica, e purtroppo è anche urgente a causa della situazione attuale. La guerra è il fallimento della politica. Questo va sottolineato: la guerra è il fallimento della politica. Si alimenta del veleno che considera l’altro come nemico. La guerra ci fa toccare con mano l’assurdità della corsa agli armamenti e del loro uso per la risoluzione dei conflitti. Mi diceva un tecnico che se per un anno non si facessero armamenti si potrebbe eliminare la fame nel mondo. Dunque, ci vuole una “migliore politica” (cfr. Enc. Fratelli tutti, cap. 5), che presuppone proprio ciò che state facendo voi, cioè educarsi alla pace. Questo è responsabilità di tutti. Fare la guerra ma un’altra guerra, una guerra interiore, una guerra su sé stessi per lavorare per la pace.
Oggi la politica non gode di ottima fama, soprattutto fra i giovani, perché vedono gli scandali, tante cose che tutti conosciamo. Le cause sono molteplici, ma come non pensare alla corruzione, all’inefficienza, alla distanza dalla vita della gente? Proprio per questo c’è ancora più bisogno di buona politica. E la differenza la fanno le persone. Lo vediamo nelle amministrazioni locali: un conto è un sindaco o un assessore disponibile, e un altro è chi è inaccessibile; un conto è la politica che ascolta la realtà, che ascolta i poveri, e un altro è quella che sta chiusa nei palazzi, la politica “distillata”.
Mi viene in mente l’episodio biblico del re Acab e della vigna di Nabot. Il re vuole appropriarsi della vigna di Nabot, per allargare il suo giardino; ma Nabot non vuole e non può venderla, perché quella vigna è l’eredità dei suoi padri. Il re è arrabbiato e “mette il muso”, come un bambino viziato. Allora sua moglie, la regina Gezabele — che è un diavoletto! — risolve il problema facendo eliminare Nabot con una falsa accusa. Così Nabot viene ucciso e il re prende la sua vigna. Acab rappresenta la peggiore politica, quella di andare avanti e farsi spazio facendo fuori gli altri, quella che persegue non il bene comune ma interessi particolari e usa ogni mezzo per soddisfarli. Acab non è padre, è padrone, e il suo governo è il dominio. Sant’Ambrogio scrisse un libretto su questa storia biblica, intitolato La vigna di Nabot. A un certo punto, rivolgendosi ai potenti, Ambrogio scrive: «Perché scacciate chi è compartecipe ai beni della natura e rivendicate per voi soli il possesso dei beni naturali? La terra è stata creata in comunione per tutti, per ricchi e per poveri. [...] La natura non sa cosa siano i ricchi, lei che genera tutti ugualmente poveri. Quando nasciamo non abbiamo vestiti, non veniamo al mondo carichi d’oro e d’argento. Questa terra ci mette al mondo nudi, bisognosi di cibo, di vesti e di bevande. La natura [...] ci crea tutti uguali e tutti ugualmente ci racchiude nel grembo di un sepolcro» (1, 2). Questa piccola ma preziosa opera di Sant’Ambrogio sarà utile per la vostra formazione. La politica che esercita il potere come dominio e non come servizio non è capace di prendersi cura, calpesta i poveri, sfrutta la terra e affronta i conflitti con la guerra, non sa dialogare.
Come esempio biblico positivo possiamo prendere la figura di Giuseppe figlio di Giacobbe. Ricordate che lui viene venduto come schiavo dai suoi fratelli, che erano invidiosi di lui, e viene portato in Egitto. Lì, dopo alcune peripezie, viene liberato, entra al servizio del Faraone e diventa una specie di Viceré. Giuseppe non si comporta da padrone, ma da padre: si prende cura del Paese; quando arriva la carestia organizza le riserve di grano per il bene comune, tanto che il Faraone dice al popolo: «Fate quello che [Giuseppe] vi dirà» (Gen 41, 55) — la stessa frase che Maria dirà ai servi alle nozze di Cana riferendosi a Gesù —. Giuseppe, che ha sofferto l’ingiustizia personalmente, non cerca il proprio interesse ma quello del popolo, paga di persona per il bene comune, si fa artigiano di pace, tesse rapporti capaci di innovare la società. Scriveva Don Lorenzo Milani: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».1 È così, è semplice.
Questi due esempi biblici, uno negativo, l’altro positivo, ci aiutano a capire quale spiritualità può alimentare la politica. Ne colgo solo due aspetti: la tenerezza e la fecondità. La tenerezza «è l’amore che si fa vicino e concreto. [...] È la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti. In mezzo all’attività politica, i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore» (Enc. Fratelli tutti, 194). La fecondità è fatta di condivisione, di sguardo a lungo termine, di dialoghi, di fiducia, di comprensione, di ascolto, di tempo speso, di risposte pronte e non rimandate. Significa guardare all’avvenire e investire sulle generazioni future; avviare processi piuttosto che occupare spazi. Questa è la regola d’oro: la tua attività è per occupare uno spazio per te? Non va. Per il tuo gruppo? Non va. Occupare spazi non va, avviare processi va. Il tempo è superiore allo spazio.
Cari amici, vorrei concludere proponendovi le domande che ogni buon politico dovrebbe farsi: «Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?» (ibid., 197). La vostra preoccupazione non sia il consenso elettorale né il successo personale, ma coinvolgere le persone, generare imprenditorialità, far fiorire sogni, far sentire la bellezza di appartenere a una comunità. La partecipazione è il balsamo sulle ferite della democrazia. Vi invito a dare il vostro contributo, a partecipare e a invitare i vostri coetanei a farlo, sempre con il fine e lo stile del servizio. Il politico è un servitore; quando il politico non è un servitore è un cattivo politico, non è un politico.
Grazie del vostro impegno. Andate avanti e che la Madonna vi accompagni. Di cuore vi benedico, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!
1 Lettera a una professoressa, Firenze 1994, 14.
martedì 14 marzo 2023
La basilica dell'agonia a Gerusalemme - Osservatore Romano
Lo stretto cañón all’interno del quale scorre il torrente Kedron, limitato a ovest dall’area più antica e venerabile della Città Santa — il Monte Moriah con i massicci resti del Tempio oggi sigillati dal piazzale del Haram esh-Sharif, il Nobile Recinto nel quale sono state erette la Cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa — e a est dall’altura conosciuta come Monte degli Olivi, è molto ripido nel suo settore settentrionale mentre, più a sud, si allarga in una modesta spianata di fondovalle in corrispondenza con la zona nella quale il corso d’acqua, scendendo da settentrione, si dirige verso ovest lasciandosi sulla destra l’altura del Monte Sion, propaggine meridionale della Gerusalemme storica.
In corrispondenza con tale area si avvia la strada che conduce alla sommità del Monte degli Olivi: ed è appunto quello il crocevia che separa la bellissima e commovente Chiesa della Dormizione della Vergine (che i crociati chiamarono Santa Maria Latina), la quale ancor oggi si presenta nel suo aspetto romanico-gotico con la sua vertiginosa navata in ripida discesa, ch’è in realtà una sola gradinata al fondo della quale si venera il Sepolcro di Maria (da lì si accede alla grotta del Getsemani vera e propria, assegnata nel 1392 dalle autorità mamelucche ai francescani), dall’attiguo complesso comprendente il giardino degli olivi — acquisito dai frati nel 1966 — che custodisce otto venerabili piante ultracentenarie e, a esso attigua immediatamente a sud, quella che tradizionalmente si denomina Basilica dell’Agonia ma ch’è ormai conosciuta piuttosto come Chiesa delle Nazioni.
Siamo quindi nell’ambito di uno dei più venerabili luoghi santi: quello deputato a ricordare l’area del frantoio (in ebraico Gat-shmanim, torchio per le olive) dove Gesù e gli apostoli usavano riunirsi e dove avvennero gli episodi salienti della Notte dell’Agonia, il Giovedì santo. Un’area archeologicamente ricchissima, situata quasi esattamente di fronte alla sezione delle mura cittadine nella quale si apre dall’altra parte della valle, in alto, la Porta Aurea di accesso al Tempio (peraltro oggi murata).
Nel quadro della riorganizzazione urbana di Gerusalemme come città-santuario cristiana, avviata da Costantino su impulso (come tradizionalmente si ricorda) della madre Elena, l’imperatore Teodosio dispose qui la fondazione di una chiesa dedicata al Salvatore, l’altare maggiore della quale era disposto sulla pietra su cui Cristo si era disteso durante l’Agonia. L’edificio misurava una larghezza di 16,5 metri e una profondità di 22,5. Esso fu uno dei primi luoghi santi che i persiani distrussero durante la loro conquista della città, nel 614; quel che ne rimaneva fu cancellato da un sisma nel 746. Una piccola cappella crociata, costruita nel XII secolo, venne spazzata via nel corso del Trecento. I resti dell’edificio vennero scoperti durante la campagna di scavi archeologici tra il 1891 e il 1901.
Nel 1912, dopo la crisi determinata dalla guerra italo-turca per il controllo di Tripolitania e Cirenaica, le autorità italiane avevano concordato con il sultano d’Istanbul l’edificazione di un gruppo di nuovi edifici in Gerusalemme nuova, subito a nord delle mura, in quello ch’era allora il quartiere italiano: era prevista fra l’altro la fondazione di un moderno ospedale, la costruzione del quale venne affidata all’architetto romano poco più che trentenne Giulio Barluzzi (1878-1953); dopo la parentesi bellica, i lavori ripresero sotto la guida sua e del fratello, nonché collega, Antonio (1884-1960).
Con la pace del 1918 e il successivo affidamento della Palestina al governo britannico sotto la forma del Mandato, i Paesi europei e americani che avevano ritrovato una concordia (anche se purtroppo destinata a durare poco) ritennero di celebrare il nuovo clima erigendo una grande chiesa sul luogo stesso dell’antico edificio teodosiano consacrandolo alla Passione del Cristo e all’istituzione dell’Eucarestia. I lavori, su progetto e sotto la direzione di Antonio Barluzzi, si conclusero nel 1924. In quel contesto di amicizia e d’iniziale entusiasmo i vari governi occidentali, sostenuti da donazioni popolari, concorsero alle spese per il nuovo sacro edificio e se ne distribuirono gli spazi. La gestione venne affidata all’Ordine francescano.
La città, frattanto, nelle sue aree moderne stava trasformandosi in cantiere. Nel 1927 si fondò a nord della città vecchia il Museo Rockfeller, che ospita reperti dalla preistoria all’epoca dei crociati; una serie di archeologi compì molte importanti ricerche e notevoli scoperte; i musulmani restaurarono sia la moschea al-Aqsa (utilizzando anche colonne di marmo di Carrara donate dal Duce, che mirava a risolvere uno dei problemi lasciati aperti dallo status quo: il ritorno del Cenacolo ai francescani attraverso una donazione all’Italia) sia la Cupola della Roccia. Frattanto, a Barluzzi furono commissionati i progetti per la costruzione di due basiliche: quella del Getsemani e quella del Monte Tabor, entrambe consacrate nel 1924.
Successivamente, egli avrebbe continuato a lavorare in Palestina e più in generale in Medio Oriente. Negli anni Trenta eseguì lavori sul Monte Calvario, nel santuario delle Beatitudini; nel 1938-1940 costruì il santuario della Visitazione e nel decennio successivo restaurò il chiostro medievale di Betlemme. Certamente la sua opera ha lasciato un segno nell’architettura della Palestina, sempre improntato a una prospettiva tradizionalista lontana da ogni sperimentalismo, anche da quelli più in voga fra le due guerre.
È un dato che si registra anche per la Chiesa delle Nazioni, nell’abside della quale fu incorporata la sezione di roccia sulla quale secondo la tradizione Gesù pregò prima del suo arresto, come testimoniato dal vangelo di Marco (14, 32-42).
Nel 1920, durante i lavori sulle fondamenta, sotto il pavimento della cappella crociata fu rinvenuta una colonna due metri. Vennero trovati anche i frammenti di un magnifico mosaico. In seguito a questa scoperta, Barluzzi fece rimuovere le opere nuove e iniziò gli scavi della chiesa precedente. Dopo che i resti della chiesa bizantina furono completamente scavati, i piani per la nuova chiesa furono modificati e i lavori per l’attuale basilica proseguirono fino al giugno 1924, giorno (come detto) della consacrazione. Gli scavi sono continuati fino ai nostri giorni; nel 2020 sono stati rinvenuti i resti delle fondamenta di un bagno rituale e alcune iscrizioni di pellegrini cristiani.
Gli emblemi nazionali dei Paesi che contribuirono alle spese di costruzione sono incorporati nel soffitto, ciascuno in una piccola cappella separata, e tornano nei mosaici interni. Le cappelle, distribuite l’una accanto all’altra nello spazio rettangolare interno (che si configura come una vasta sala dal soffitto sostenuto da colonne) sono da est a ovest, cioè a partire dall’abside settentrionale fino all’ingresso: a nord (quindi a sinistra di chi entri nell’edificio) Argentina, Brasile, Cile e Messico; al centro Italia, Francia, Spagna e Regno Unito; a sud (cioè a destra) Belgio, Canada, Germania e Stati Uniti. I mosaici delle absidi sono stati donati da Irlanda, Ungheria e Polonia e la balaustra di ferro intorno al basamento, che delimita la roccia dell’Agonia, dall’Australia.
L’edificio nel complesso può essere definito di aspetto neoclassico. La facciata è caratterizzata da tre archi delimitati da tre colonne-pilastro di stile corinzio, sopra ognuna delle quali si trovano le statue dei quattro evangelisti; sopra il frontone vi è un mosaico che raffigura Gesù come intermediario tra l’uomo e Dio, opera del pittore e decoratore Giulio Bargellini. L’interno si presenta in ultima analisi come uno spazio ripartito, diviso da colonne disposte in tre navate di quattro campate ciascuna, con un soffitto uniforme privo di cleristorio in modo da conferire l’idea di una grande sala aperta.
Per la costruzione della chiesa furono utilizzati due tipi di pietra: all’esterno una pietra rosa proveniente da Betlemme, all’interno una pietra proveniente dalle cave di Lifta (a nord-ovest di Gerusalemme), all’epoca un villaggio arabo-palestinese poi spopolato durante la prima parte della guerra civile del 1947-1948 e oggi non più esistente. Per le finestre sono stati utilizzati pannelli di alabastro color viola per evocare l’agonia di Cristo, mentre il soffitto è dipinto di un blu intenso per simulare il cielo notturno.
La basilica è tuttora sotto il controllo della Custodia francescana di Terra Santa, che in loco controlla anche l’orto degli Ulivi e la Grotta del Getsemani, identificata come il luogo in cui fu arrestato Gesù. Tuttavia, nel giardino della Chiesa delle Nazioni si situa un altare utilizzato per la preghiera da tutte le altre confessioni cristiane. Nel dicembre 2020 la chiesa è stata oggetto di un incendio doloso quando un colono estremista ebreo ha versato un liquido infiammabile sulle panche di legno della chiesa; tuttavia alcuni palestinesi che vivono nella zona e i fedeli che vi si trovavano sono riusciti a fermare l’incendio che non ha provocato danni rilevanti. L’edificio, sia pur criticato per le linee convenzionali e per una sua certa pesantezza, ben si adatta tuttavia al tono evocativo e solenne al quale s’ispira.
di FRANCO CARDINI
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Lorenzino don Milani - Documentario
È un documentario realizzato da Alberto Melloni, Fabio Nardelli e Federico Ruozzi nel 2007, con il patrocinio della Regione Toscana. Più di un semplice documentario o reportage commemorativo, è un racconto videostorico, un saggio scritto con le immagini, i giornali, le lettere, le musiche e con le associazioni che si creano fra questi diversi livelli espressivi. II racconto, cui presta la voce il giornalista televisivo David Maria Sassoli, è stato montato partendo dal carteggio del giovane Lorenzo Milani con la madre, l’ebrea colta e cosmopolita Alice Weiss, per svilupparsi in una narrazione corale in cui si fondono le varie testimonianze, le immagini di repertorio, i documenti, le foto di una vita – tra cui alcune scattate da un giovanissimo Oliviera Toscani – e le poesie in musica di Fabrizio De André, commento sonoro di tutta l’opera. Lorenzino-don Milani è stato distribuito in tutte le scuole della Regione Toscana ed è andato in onda su Raiuno domenica 17 giugno 2007 all’interno dello Speciale Tg1 TV7 con il titolo Don Lorenzo Milani, la dura scuola dell’amore.
mercoledì 1 marzo 2023
01/03/2023 - Diario - Papà prepara il gelsomino per la primavera.
2021, 1 marzo - Terrazzo di casa mia a Roma. Papà prepara le piante per l'imminente primavera. |
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